Fare l’insegnante di sostegno. Dubbi e perplessità (degli altri).

Ormai non conto più in quanti mi hanno domandato in questi anni: ma come si fa l’insegnante di sostegno? E poi, senza aspettare la risposta, domandarmi abbastanza sfacciatamente, (come se ci fosse un permesso socialmente consentito: “è vero che non fate nulla tutto il giorno in classe?”.

Ok. Ci risiamo. Ci risiamo perché questa spiegazione che mi appresto a dare non è per me stessa, o almeno non solo, ma per un altro motivo più importante che spero di spiegare bene.

Iniziando dal presupposto che ogni persona si prende la responsabilità di lavorare come meglio o peggio crede (vale per qualsiasi lavoro), per fare l’insegnante di sostegno l’iter è questo: ci si prende una laurea con tutti i cfu annessi, poi si fa un concorso. Una volta superato, si fanno altre prove, fino ad accedere ad un anno di specializzazione che si chiama TFA. A quel punto dopo altri esami ed ennesima prova finale e tesi di laurea, prendi altri cfu e diventi docente specializzato.

Sì, ci sono persone precarie che fanno sostegno senza essere specializzati e questo costituisce una barriera, certamente. La situazione infatti sta per cambiare. La normativa cambierà, prevede probabilmente due docenti su materia e stop e si chiama ‘cattedra condivisa’. Contate che la maggior parte dei docenti (curriculari) non possiede questo tipo di specializzazione e questo complica le cose. La situazione si sta evolvendo nel senso che (forse) in futuro non ci sarà più questa distinzione tra docenti come spero che accadrà, perché il docente di sostegno non è assegnato solo agli studenti con bisogni specifici ma su tutta la classe. Spoiler: gli insegnanti di sostegno devono lavorare su tutta la classe cooperando con i colleghi delle altre materie. Questa comunicazione spesso fallisce, sì. Perché cooperare è difficile, perché all’insegnante di sostegno non viene dato lo spazio decisionale di cui ha bisogno per lavorare, per il divario di mentalità fra i due ruoli. Di frequente sento dire dai colleghi frasi tipo: non farei mai il sostegno! 

Ma di cosa parliamo? Non insegneresti mai ad alcuni dei tuoi alunni quindi? Preferisci fare lezione frontale come si faceva negli anni ’50?

Altro spoiler: l’Italia è abbastanza avanti con l’inclusività. Non abbiamo classi differenziate come qualche ministro poco lungimirante vorrebbe fare. Chi e cosa dovremmo differenziare in una multifferenza di persone che possono apportare solo cose positive? Rispondendo quindi a domande sciocche, a chi insegni? A tutti! E se i docenti sono bravi collaborano, e se gli educatori sono bravi collaborano con i docenti. È così che si lavora, INSIEME. È così che gli studenti interiorizzano che non ci sono differenze, perché si va avanti INSIEME. E spesso è difficile sì, e chi dice il contrario? Ma vogliamo scremare le classi fino a togliere le persone con difficoltà per far emergere solo chi ha la vita facile? Ci avvicineremmo all’eugenetica nazista. Cosa produrremmo? Alunni non empatici, egoisti, egocentrici, egocentrati. È questo tipo di società che vogliamo? Super produttiva e malata?

Chi lavora con me lo sa, a suo discapito o per sua fortuna. Che può avermi come alleata, o tutto il contrario, perché se mette da parte me in classe, anzi, non me in quanto persona, ma il mio ruolo, mette da parte questi ragazzi. Sono lì come bargello dei miei studenti, quelli che la società ha fatto sentire diversi ma che non lo sono mai stati, quelli a cui nessuno ha mai chiesto scusa. Sono lì per loro sulla mia torretta difensiva ad osservare che vada tutto bene, a fargli vedere che possono fare tante cose se qualcuno gli dà fiducia, cose che noi con gli occhi da adulti non riusciamo a vedere.

Se qualcuno ha domande da farmi su questo lavoro, se non si tratta di sciocchezze e stereotipi, sarò felice di rispondere, perché facciamo i fighi e ci chiamiamo inclusivi, parliamo di diritti lgbtq+, di viaggi, di multiculturalismo, ma sappiate che ogni volta che screditate questo lavoro, il ruolo che ricoprono questo tipo di insegnanti, non screditate noi, ma loro. Io sono adulta, a me non frega minimamente delle sciocchezze che sento da altri adulti, ma devo proteggerli dalle vostre cattiverie.

Stamattina ho incontrato al supermercato uno di quegli alunni con situazioni familiari molto complicate. Appena l’ho visto mi è venuto istintivo: “Ciao F.!”, e mi sono accorta che i nomi di quegli alunni, passassero anni, sono quelli che io non dimentico mai.

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La distinzione delle libertà.

Nel 1992 Mia Martini cantava la pazienza delle donne ne Gli uomini non cambiano. Avevo 12 anni e quel testo mi entrò dentro con una forza opprimente, una tristezza che poi capii col tempo. Penso che oggi quel tipo di pazienza sia finita, al macero, spero una volta per tutte. Si trattava di una pazienza che sapeva di arresa, di costrizione a una vita non propria solo perché si era nate donne. Leggo incredula la presa di posizione di Catherine Deneuve che mi sa dello stesso non sense di quelli che protestano per i non diritti altrui. In questo caso le vittime manifestano in difesa dei loro carnefici. Non mi interessa convincere della logica e della necessità del femmismo oggi, bisogna leggere in prima persona, informarsi minuziosamente, studiare, raccogliere documenti; le opinioni personali probabilmente annebbiate da vecchie credenze devono cedere il passo a una nuova ragione. È ora di fare questo salto con fiducia. È il momento di attrezzarsi di idee nuove e di deporre sul comodino quelle che reputiamo siano certezze.

Ho guardato migliaia di volte il viso di mia madre mentre scontenta rassettava la casa, ho pregato tante volte mia nonna di sedersi un poco a tavola con me, mentre andava avanti e indietro per ‘servirmi’ pranzo e cena perché così le avevano insegnato di fare. Me lo sono sempre chiesta da piccola perché le donne dovessero sparecchiare e gli uomini no, perché mi richiedessero di sedermi composta ed essere carina mentre i maschi avrebbero potuto essere anche rivoltanti, perché si aspettassero da me una predilezione per le Barbie anzichè le pistole. Perché il mondo era mio solo in assenza di un uomo, che quando solcava la porta di casa portava solo irrequietezza per il clima autoritario che si veniva a creare?

Si tratta di eliminare dal nostro vocabolario parole che non hanno più un’accezione di valore. Può un delitto, essere d’onore? Oggi per la legge italiana ha perso quella positiva. I modi di dire, i proverbi, la nostra tradizione è piena di parole negative dedicate alla donna, parole da sempre sentite da bambini che oggi sono adulti, che non hanno la percezione di cosa è violento e cosa no, rispettoso o no. Può un bacio essere rubato? Una palpata ai seni rubata? Al sedere? Una stretta? Una qualsiasi costrizione? Davvero ritenete sensuale costringere con la prepotenza a un contatto fisico una persona? Davvero non siete in grado di chiedere? O di capire se chi vi sta di fronte sia consenziente o meno? Èesilarante venire tacciate di moralismo e puritanesimo, perché è vero l’esatto contrario. Io voglio vivere la mia libertà sessuale, mentre voi spacciate per libertà ilvostro egoismo e la prepotenza di portare il mondo ai vostri piedi.

Cari maschi, il mondo è stato sempre vostro, lo è ancora per la maggior parte, lo è quando in una strada buia tra una donna e un uomo non c’è partita a forza fisica, per questo il vostro compito sarebbe solo e soltanto quello di chiedere, di non prevaricare mai. Non capite ancora di cosa sto parlando? Provate a vivere da donne, per qualche anno, fate questa esperienza fisica, sperimentate, l’esperienza sarà chiarificatrice. Allo stesso modo noi donne dovremmo letteralmente metterci nei panni dei maschi per qualche tempo, per capire quello che ci è stato tolto finora.

Un illuminante documentario della regista Diane Torr, Man for a day and woman for a day, racconta di un esperimento sociale dove alcune donne vivono nella società travestite da maschi. Nessuno sospetta di loro, a poco a poco prendono confidenza con la nuova fisicità e il ruolo che ricoprono. Cosa vuol dire essere maschi? La regista raccomanda a queste donne di non sorridere sempre, i sorrisi di circostanza e gentilezza li fanno le donne, i maschi ridono solo quando ne hanno voglia. Una di loro dice: ” Sono stata colpita dalla calma che ho vissuto, da quando sono un uomo”. Un uomo non si scansa per strada per far passare qualcuno altro, la regista consiglia: “Camminate come se ogni centimetro calpestato dai vostri piedi fosse di vostra proprietà”.

Oggi sarebbe utile per gli uomini l’esperimento contrario: vivere da donne.

La psicologia oggi parla di una caratteristica caratteriale che rende la vita di ogni persona soddisfacente: l’assertività. Essa è la capacità di individuare chiaramente le nostre necessità individuali, i nostri bisogni, desideri, e saper dire di no senza nessun senso di colpa, ma grazie a una sufficiente fiducia in se stessi e a un’indipedenza personale. Non si tratta di scadere nell’egoismo, si tratta di affermare se stessi come individui in una maniera sana, avendo chiaro il rispetto per sè. Alcuni traumi infantili però rendono ad alcune persone impossibile questo tipo di comportamento salutare, anche solo per essere stati trascurati costantemente dai propri genitori. Il rischio e il risultato è di adottare comportamenti passivi e aggressivi vivendo un poco come dei fantasmi per gli altri. Si dice sì ad ogni richiesta, oppure si dice di no arrabbiati e nevrotici. Difficile non pensare alla psicologia femminile, leggendo queste definizioni. A livello sociale, la donna ha potuto essere mai assertiva? Quando alle vittime di violenza, molestie, si chiede il perchè non sia stato detto un ‘no’, si dovrebbe fare riferimento anche al quadro ambientale abusivo dove si è svolta la storia delle donne.

Non posso accettare che chi mi cammina affianco, che chi lavora nella mia stessa stanza, o un estraneo si creda inconsapevolmente padrone di una parte di me. Il guanto bianco pronto a schiaffeggiare un corteggiatore maldestro lo lascio a una vecchia generazione di donne sospese tra le prigioni che avevano dentro e la libertà ancora da conquistare.

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Madrid

La prima volta che andai in Spagna lo feci con dei miei amici a Barcellona. La seconda volta in Spagna…pure! Credo che se cerchi divertimento, mare, movida, non ci pensi due volte a scegliere Barcellona e non si sbaglia, è una città stupenda. Poi, durante un corso di storia all’università, conobbi delle ragazze madrilene, che mi dissero:” Sì, Barcellona è bella, ma Madrid…molto più bella.” Poi ci fu Almodovar, la colonna sonora dei suoi film, sentivo di non aver visto ancora la vera Spagna e fu la volta di Madrid. Prenotazione su Raynair, dal 20 al 24 maggio. Pochi giorni. Era necessario organizzarsi, Madrid è molto grande. Arrivo alle 19:30. L’areoporto era grandissimo e ci si impiega molto per uscirne. Una volta presa la metro però è stato comodo arrivare in città. Fermata Puerta del Sol, in una ventina di minuti. Il sole era ancora alto e faceva caldo, ancora con le valigie in mano, eccitata per l’arrivo alzo lo sguardo sull’insegna pubblicitaria di Tio Pepe che sovrastava la piazza, si respirava davvero tutta un’altra aria, tipicamente spagnola. Madrid era bella, imponente, maestosa e non vedevo l’ora di esplorarla.

Prima sera:

L’albergo in calle de la Cruz era a due passi da Puerta del Sol, il punto mediano della città e di tutta la Spagna, la stanza molto piccola, ma  punto strategico per girare in centro la sera e con una bella vista sulla città. Dopo essermi rifocillata un po’ si prenota lo spettacolo di flamenco a Villa Rosa, in Plaça Sant Ana, per la sera successiva. La serata prosegue in un altro bar molto conosciuto: Casa Alberto. La folla di persone dentro sembra presa da un’allegria altamente contagiosa, l’atmosfera mi rilassa e mi mette di buon umore subito. Cena a base di: patatas bravas, bocadillos de calamares in una tapas e un pimiento condito. Tutto buonissimo. E vino, ovviamente! La stanchezza del viaggio non vince sul piacere estetico della città che di notte appare bellissima. Lungo la Gran Via che comincia da Calle de Alcalá e termina nella Plaza de España scorrono uno dopo l’altro gli imponenti palazzi novecenteschi, il Metropolis, il cinema Capitol, l’Edificio telefonica, l’hotel Cibeles, mi sembra di essere a Broadway.

Primo giorno:

 Mi sveglio con gli occhi pieni di cose bellissime. Nonostante l’arrivo serale, in poche ore Madrid mi ha già conquistata. Non vedo l’ora di ripartire. Per farlo alla grande, faccio una colazione da reali di Spagna. La Mallorchina in Plaza Puerta del Sol, offre un servizio velocissimo e ogni tipo di dolciumi da accompagnare al caffè con il latte che è il corrispettivo del nostro cappuccino. Per riempire i buchi durante le infinite passeggiate prendo anche due panini al latte farciti prima di andarmene. Messi dentro una scatoletta di carta hanno davvero un buon aspetto. Ho preso poche volte la metro, perchè ogni strada di Madrid vale la pena essere percorsa e gustata con gli occhi. Dopo due giorni ho comprato due scarpe nuove perché avevo distrutto le precenti, tanto per capirci. In plaza Isabella mi fermo in una libreria all’aperto che vendeva delle stampe antiche, ne compro due. Proseguo per Plaza Maior, una piazza grandissima scenario della dominazione asburgica. A sud, si prosegue per vicoli e piazzette, mi ritrovo a Plaza de la Paja, una piazza molto bella dove fare aperitivo e rilassarsi all’ombra degli alberi. Da calle Toledo proseguo verso la Latina, un quartiere fantastico da girare a piedi. Al mercado Cebada ho comprato un po’ frutta fresca. Voglio farmi una foto in una location famosa di un film di Almodovar, il viadotto di Segovia. Il viadotto unisce in altezza il Palazzo Reale e la zona delle Vistillas. Nell’immaginario popolare dei madrileni ha rappresentato il luogo tradizionale dei suicidi. Nel suo ultimo film, Gli amanti passeggeri, il personaggio di Paz Vega compie un tentativo di suicidio esattamente in questo posto. Proseguo per calle de Toros, vado a visitare la cattedrale e il palazzo Reale, immenso. Lo ammiro senza entrarci, mi porterebbe via troppo tempo e faccio la scelta di proseguire la mia ‘passeggiata’. Mi fermo nei giardini di fronte il palazzo per mangiare i panini. Visito così la plaza de Oriente, a sud est del Palazzo Reale. Alle ore 10:30 c’è lo spettacolo di flamenco prenotato la sera prima. Il ristorante dagli interni tradizionali, offre la cena e uno spettacolo strepitoso, a dir poco emozionante. Il flamenco dal vivo rimarrà per me un’esperienza a dir poco indimenticabile. A questo punto essendo sera inoltrata voglio assaggiare questa movida madrilena. Vado in direzione Chueca. Le vie sono piene di locali, bar, discoteche, ne visito un po’. Dopo due birre più il vino di Villa Rosa direi che sono abbastanza carica, ordino la terza birra…il locale è piccolissimo e c’è un clima festosissimo. All’uscita dal locale è ormai notte fonda, la gente balla e canta per strada, dei ragazzi mi consigliano un posto che fa panini caldi con il pollo. Devo dire che non ricordo come di chiama, pardon. Continuo il mio giro e dei ragazzi mi chiedono informazioni stradali, dico che sono italiana e appena arrivata. Dopo due minuti sono catapultata in una discoteca gay: disco Polana. Il sito di questo locale raccomanda di non farsi intimidire dai buttafuori all’entrata perchè sono dei fan di Raffaella Carrà. Objetivo: fiesta! Naturalmente. Come primo non giorno e mezzo a Madrid non c’è male.

Secondo giorno:

Ore 10:00. Ovviamente Mallorchina. Le torte sui piattini mi passano davanti al naso una dopo l’altra. Dio benedica la velocità del servizio, vedo i camerieri che comunicano a gesti, dei razzi umani, efficienza spagnola. La luce abbagliante illumina una città sempre in movimento, ma non isterica, con dei ritmi scanditi. I temperamenti sono vivaci, allegri, meno delicati degli italiani, più risoluti e sicuramente tanto energici. Gli spagnoli chiacchierano e chiacchierano almeno quanto dei siciliani e tra i fiumi di parole non perdono nemmeno un minuto. Sono al Rastro, lo scorgo già da lontano per la fiumana di gente. Nonostante il continuo traffico le persone sono gentili, ben disposte agli altri. Non ci sono più abituata ai sorrisi e all’allegria. Sarà merito del sole, penso. Il mercato è grandissimo, i prezzi contenuti, ci sono magliette a tre euro. Ne compro una con una bici stampata. Ci sono gli zaini in pelle andalusi. Vado a visitare la sezione dedicata all’antiquariato. Continuo il giro nel quartiere di Lavapiés, chiamato anche barrios bajos. È il quartiere caldo di Madrid, multietnico per eccellenza. Molti scrittori e artisti ne trassero beneficio in creatività: Cervantes, Tirso de Molina, Ramòn de la Cruz, Goya. Mi ritrovo in mezzo a dei tamburi africani che attraversano le strade. Mi sembra tutto meraviglioso. Proseguo il giro al Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofìa, (Calle de Santa Isabel, 52 ). Dedicato a tutta la produzione artistica dagli inizi del Novecento ad oggi. Ci sono artisti come Dalì, Mirò, Jorge de Oteiza, Antoni Tapiès, ma il vero punto di attrazione è la Guernica di Picasso. Dopo esser passata dalla stazione di Atocha, nel bel mezzo della città, voglio assolutamente vedere dove si svolge la Corrida. Almeno da fuori, perché una volta arrivata sento il trambusto provenire dall’interno e voglio tornare indietro. Spettacoli a tutte le ore. (Plaza de toros de la Ventas). Ritorno indietro verso Malasaña, un bellissimo quartiere pieno di caffè e piazzette. Mi fermo a guardare un gruppo di ballerini di swing, scorgo una coppia settantenne di viaggiatori che posano lo zaino e si aggiungono al gruppo per ballare. La folla applaude. Fanno venire voglia di vivere. Spesso, quando viaggio incontro anziani che incoraggiano i giovani dicendo che si può viaggiare tutta una vita, è davvero molto incoraggiante! Dopo questa sferzata di positività ed energia vado a visitare plaza Dos de Mayo. Torno verso il mio albergo per cenare, i bar affollati di giovani non mi attirano molto per il cibo, noto allora una specie taverna tradizionale, il profumo è buono. Chiedo a degli italiani appena usciti come si  mangia. Ho deciso. Il menù è fantastico, quasi tutto a base di pesce. È tutto buonissimo. Ve lo assicuro perchè sono abbastanza schizzinosa col cibo. Ho preso vari piatti per assaggiare un po’ di tutto. Cucinano davanti ai tuoi occhi il pesce fresco, alla fine della cena mi offrono un bicchiere di Moscatel, un vino dal sapore dolce, la fine del mondo. Ho speso in tutto credo 15 euro. Se siete affamati: Casa Toni, calle de la Cruz, 14. Passeggio tutta la sera in centro, mi fermo prima di andare a dormire al Cafè Central, un vecchio jazz bar, mi gusto una pastel alla carota.

Terzo giorno

Al terzo giorno per le cose ch ho visto mi sembra di esserci già da una settimana. Essendo l’ultimo mi devo muovere. Inizio dalla Gran Via, ci passo a piedi. Continuo per Plaza de España col monumento dedicato a Cervantes e le sculure di don Chisciotte e Sancho Panza. Tappa successiva: il bellissimo Parco del Retiro con il suo Palacio de Cristal. Il parco è grandissimo e ci vuole molto tempo per visitarlo tutto. Madrid è l’unica città del mondo ad avere la statua del diavolo proprio in questo parco, si chiama Monumento el Angel Caìdo. A me personalmente è piaciuta di più la fontana dedicata al carciofo! Fuente de la Alacachofa. Il posto è bellissimo e ci si starebbe un’intera giornata. Successivo al Parco decido, aspettando le 18:00, (l’orario in cui si entra gratis al Prado), di visitare il Giardino Botanico. Mi sono divertita tantissimo, piante di tutti i tipi, una visita stupenda. Mi dirigo verso il famoso Museo Nacional del Prado, uno dei musei più grandi al mondo, (provare per credere, non riuscirete in un solo giorno a visitarlo tutto!). Conosciuto in tutto il mondo per le opere di Velàsquez, Goya, dipinti italiani e fiamminghi. Emozione pura per chi ama l’arte. Ci si sente ubriachi passando da una sala all’altra. Non dimenticate di visitare l’opera famosa di Velàsquez: Las Meninas. Torno verso l’albergo ignara di avere due piedi, non so quanti chilometri ho divorato, a proposito di divorare…torno a Casa Toni e lo ringrazio di esistere! Calamari sulla piastra, pimientos de padron, e tanto altro. Continuo la serata tra pub e locali. Ma chi mi ferma! Tre giorni sono troppo pochi a Madrid. Questa città mi ha letteralmente stregata. Cultura, divertimento, bellezza, calorosa accoglienza, cibo buono e prezzi contenuti. La mattina dopo faccio una bella colazione e mi prendo un largo anticipo per andare in areoporto visto quant’è grande, (non sottovalutate questo particolare!). Mi porto in valigia a casa delle giornate bellissime e il fiorire di alcune amicizie che mi hanno scaldato l’anima.

A presto Madrid!

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Sono disoccupato.

Quale uomo riesce a vivere la propria vita esulando dagli aspetti sociali? Chi saremmo se non ci rappresentassimo agli altri come padre, madre, studente, lavoratore e via discorrendo? Eppure, allo stesso tempo questi ruoli ci stanno stretti, lo sappiamo bene noi italiani sempre più americanizzati, sempre più immersi nel sistema capitalistico che ci ha incasellati bene nella giostra della produzione, mai ferma, mai zitta.

Partiamo da un presuppposto: noi non siamo tutte queste cose. Noi siamo quello che siamo indipendentemente da quello che riusciamo a combinare nella vita, noi siamo altro dagli sbagli, altro dalla sfortuna e anche dalla fortuna, dai soldi, dai matrimoni, dall’essere genitori o dal non esserlo; siamo anche quello che non sappiamo di essere, perciò come fa un sistema che si basa sui soldi a dirci chi siamo? A darci dei nomi? Solo chi ci ama profondamente può avere la coscienza di guardare oltre il nostro ruolo nella società, ci ama, appunto, senza nessun motivo apparente, perché non pretende niente da noi.

Lo amo perchè è un uomo che sa gestire i propri affari, il proprio potere“. “La amo perché ha avuto successo e il suo lavoro mi affascina”. “Mi sono innamorata di un medico“. Frasi a cui abbiamo da tempo abituato l’orecchio nei serial statunitensi.

Metà delle donne oggi non lavora. Numeri impressionanti riguardano la disoccupazione nel nostro paese; si salva il debito pubblico senza salvare il lavoro delle singole persone. Uomini e donne che si sono identificati col proprio lavoro e che si sono uccisi, perché insieme alla perdita dell’impiego hanno visto pure la perdita di se stessi. Un discorso enorme meriterebbe il valore del lavoro oggi che sta cambiando, la sostituzione degli esseri umani con i robot che è già una realtà contemporanea ed è destinata a crescere. I politici dovrebbero occuparsi di questo salto epocale, di questa sostituzione che conviene alle aziende, ma che scarta esseri umani. Esiste già il redattore robot, l’avvocato, perfino lo psicologo e il medico. Questo scarto ha l’impellente necessità di non rimanere tale ma di diventare un cambiamento migliore nella vita delle persone.

Stiamo oltrepassando l’impiego di esseri umani senza prevedere per loro un’ottimizzazione della loro felicità. Non ci siamo mai chiesti se un operaio che ripete meccanicamente lo stesso gesto per anni sia felice e non ci chiediamo adesso cosa farà un essere umano senza un lavoro. Uno qualsiasi.

Perchè la felicità per tutti deriva dal fatto di saper provvedere a se stessi, di occupare un piccolo spazio nel mondo e viverci senza pesare su nessuno; e facendo questo abbiamo scartato tante belle parole come ‘libertà’, ‘tempo libero’, soddisfazione personale’, ‘creatività’, ‘diritti’, ‘ dimensione umana’, ‘ecologia’, ‘bellezza’.

Oggi si fa fatica a parlare di disoccupazione, perché lo Stato non sta proteggendo ‘i nostri’ disoccupati, anzi, li stigmatizziamo negativamente, non li supportiamo socialmente. Li stiamo scartando. Ma come si può scartare un essere umano? Come può una società, la nostra, italiana, basarsi sulla forza-lavoro di milioni di casalinghe non pagate? Come può ancora un paese detto civile ridimensionare il valore di un essere umano ai più bassi livelli solo perché è femmina?

Quanti scarti ancora devono esserci per capire che stiamo sostituendo la felicità ancora con i soldi.

Mi viene da pensare che forse è meglio così, in fondo chi cavolo vorrebbe lavorare in un call center a vita? Esilarante il racconto di Michela Murgia sulla telefonista della Kirby che chiama le casalinghe. Chi vorrebbe un posto fisso nell’azienda più noiosa del mondo? Non è meglio essere disoccupati? Padroni delle nostre mattine e della notte, padroni del nostro tempo, padroni e non più servi-impiegatucci trattati senza rispetto in casermoni chiamati aziende. E i soldi? Come faremo a procurarceli? Faremo come uno dei personaggi di Erri de Luca, dispersi nelle montagne esperti di sopravvivenza e cieli immensi. Respireremo aria pulita e ci accontenteremo di poco, quasi di niente.

I robot intanto arricchiranno le tasche di qualche banchiere e manager (tutti maschi s’intende) milionario e tutti gli altri uomini lavoreranno la terra e pascoleranno le bestie (libere anche loro).

Non ci vuole tanto, abbiamo la necessità di avere poco. Nessuno avrà più voglia di suicidarsi e nessuno avrà più l’ansia di non riuscire a mantenere il solito livello di benessere, cioè riuscire a spendere sempre molto ogni mese, andare alle cene, pagare la palestra, lo psicoterapeuta, l’estetista, il parrucchiere, la connessione internet, Sky, il suv, il cellulare e tutte le cose inutili di cui non possiamo più fare a meno.suicidio1

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Da Poesie.

Bruciare le ferite sopra un sasso

e farle acciuffare dal vento, in alto.

Intorno alla montagna

danzano ora nel cielo asciutto

di nuvole collose.

Nell’assenza del tempo

la perfezione del qui ed ora

tutti gli istanti pieni

del sapendo vivere cosciente.

Nella foresta ho trovato la casa,

nel cielo l’ebbrezza della libertà,

nei richiami degli animali, gli amici,

in me stessa la tranquillità perenne.

La neve arriverà quando io saprò

difendermi, e non la temerò, anzi,

l’amerò più di tutte le cose.

Il fuoco, la lana, lo scrocchio del legno,

la cucina accesa.

Sopravvivere è accorgersi di vivere.

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Audre Lorde

Audre Lorde.

La femminista nera in America.

 

Ormai da tempo pensavo di scrivere un articolo su Audre Lorde, poi all’improvviso la notizia dell’uccisione di Emmanuel Chidi Namdi, arrivata come un pugno allo stomaco tremendo.

Informarsi sulla vita di questa donna e su cosa ha fatto è un regalo che dobbiamo farci.

Audrey Geraldine Lorde nasce a New York nel 1934, la famiglia vive ad Harlem, chiamata negli anni ’20 ‘la capitale Nera del mondo’. Audre è una ragazzina precoce e ribelle; anche il suo rapporto con la madre sarà pieno di conflitti: ‘La poesia è una cosa che ho imparato dalle stranezze di mia madre e dai silenzi di mio padre’.

Audre Lorde è un sacco di cose insieme: poetessa, scrittrice, femminista, madre, insegnante.

Alla Hunter High School frequenta maggiormente ragazze bianche e si rende conto di essere una Nera in società bianca. Quasi tutte le etichette le vanno strette, sia quelle sul piano lavorativo che sentimentale.

Nel 1963 abbraccia la lotta per i diritti civili dei Neri partecipando alla marcia su Washington, nel 1968 viene chiamata a fare un corso di poesia al Tougaloo College di Jackson, un college frequentato da studenti Neri; esce la sua prima raccolta di poesie, The First Cities e nell’autunno insegna al City College di New York dove inizia un’amicizia duratura con Adrienne Rich.

Nel 1973 esce il terzo libro, From a Land Where Other People Live, in cui era inclusa la poesia ‘Love Poem‘ prima di essere esclusa dall’editore perché celebrava l’amore fisico tra due donne.

Il libro sarà nominato per il National Book Award for Poetry del 974 concorrendo con Adrienne Rich che vincerà ex-equo con Allen Ginsberg. Durante la premiazione Audre leggerà il manifesto femminista scritto con Audre.

Il 1978 è il periodo più creativo, scriverà: ‘Uomo bambino: la risposta di una femminista lesbica Nera’, ‘Graffiare la superficie: appunti sulle barriere tra le donne e l’amore’, ‘Usi dell’erotico: l’erotico come potere’, ‘Litania per la sopravvivenza’, ‘The Black Unicorn’.

In seguito scoprirà di avere un nodulo al seno che le verrà diagnosticato come tumore maligno.

Nel 1979 termina I Diari del Cancro. Lavorerà insieme al gruppo di femministe lesbiche nere del Combahee River Collective sul tema della violenza contro le donne, attaccando il femminismo bianco accademico, ‘Gli strumenti del padrone non smantelleranno la casa del padrone’.

Nel 1991 viene nominata Poeta dello Stato di New York, muore il 17 Novembre 1992 a St. Croix, circondata da donne che le vogliono bene e altre amiche.

Audre Lorde spiega bene cos’è il razzismo destrutturando i concetti e le parole, i ruoli sociali, il Credo ideologico di uomini che non si sentono tutti uguali, dove c’è l’oppressore e l’oppresso. Si dovrebbe ripercorrere indietro tutta la trama della propria storia, filo per filo, insanguinato e autoreferenziale, per poi cominciare a cambiare l’intero disegno. Nel riconoscere l’esistenza dell’amore sta la risposta alla disperazione, il lavoro è quel riconoscimento, al quale sono stati dati una voce e un nome.

In questo impegno fisico e morale, quanto spazio deve avere la paura per cambiare il mondo?Quando oso essere potente, usare la mia forza al servizio della mia visione, allora diventa meno importante che io abbia o non abbia paura.

L’analisi di Audre non si limita alla condizione nera o omosessuale, anzi, da questa prende spunto per una comprensione della società in generale e più precisamente quella americana:

‘ L’orrore principale di ogni sistema è quando definisce il bene in termini di profitto invece che in termini di bisogno umano, o che definisce il bisogno umano escludendone le componenti psichiche ed emotive’.

Spiega così il razzismo scarnificando i processi sociali attraverso i quali esterniamo le nostre emozioni nei confronti di chi reputiamo diverso da noi e volontariamente decidiamo di dominarlo.

Uno strumento del Grande Bipensiero americano è quello di incolpare la vittima di essere una vittima.

Da italiana mi viene subito in mente la bipartizione del mio èaese in Italia del Nord e Italia del Sud. Come fare a non pensare al recentissimo incidente ferroviario tra Andria e Corato? Un solo binario che serviva una zona vastissima. Perchè al Sud lo Stato non interviene?

Oggi il meridione soffre di una differenza ingiusta aggravata dalla crisi economica, ma lo si colpevolizza con commenti razzisti dicendo che la colpa è della gente del sud che non ha spirito imprenditoriale, o che non ha voglia di lavorare e che è corrotta e quant’altro. (Durante i soccorsi ad Andria non si trovavano medici ed infermieri!I famosi ‘cervelli in fuga’ che pure al sud servono!).

Il rifiuto istituzionalizzato della differenza è una necessità assoluta in un’economia basata sul profitto che ha bisogno di outsider come riserva umana.

Audre Lorde cerca di trovare delle soluzioni realistiche all’interno delle comunità; bisogna ridefinirsi come donne, come esseri umani, ridefinire le definizioni di potere e nuovi modelli relazionali attraverso il riconoscimento della differenza.

Cosa ce ne facciamo dell’odio? Come contenerlo? Come non farsi travolgere? E quale dovrebbe essere una risposta sensata all’odio?

C’è una grande differenza tra questo odio e la nostra rabbia. L’odio è la furia di quelli che non condividono i nostri scopi, e suoi obiettivi sono la morte e la distruzione. La rabbia è il dolore delle distorsioni tra pari, e il suo obiettivo è il cambiamento.

La mia risposta al razzismo è la rabbia. Questa rabbia ha creato lacerazioni nella mia vita solo quando è rimasta inespressa, inutile a chiunque.

Io non sono libera finché c’è una donna che non è libera, anche quando le mie catene sono molto diverse dalle sue. E io non sono libera finché una sola persona di colore resta incatenata. Come non lo è nessuna di voi.

Mi vengono in mente nomi di altre fantastiche donne: Michela Murgia, Michela Marzano, Angela Putino, filosofe, femministe, scrittrici, fumettiste (Bechdel) che con il loro impegno hanno screditato un potere forte e opprimente.

Penso pure alle donne mortificate nel corpo e nell’anima, donne incinte nei barconi, donne a cui è stato negato un lavoro o un’istruzione in questo paese fatto per gli uomini. Donne offese, umiliate, sfruttate e perfino uccise. (Avete mai letto i commenti razzisti al ministro Cécyle Kyenge Kashetu sul suo profilo Facebook?).

Poi penso a tutta la violenza che pare senza rimedio, al dolore, ai cambiamenti che verranno comunque, alla voce degli stupidi e di qualche ultrà convinto di portare onore al proprio paese, al silenzio corrotto di questo Stato e alla pazienza della gente perbene che è finita e che ha smesso di sopportare questi livelli di ignoranza senza precedenti, un’ignoranza non solo scolastica, ma di un totale disconoscimento dei sentimenti umani.

Penso e spero che domani, un giorno dopo l’altro, sarà meglio di ora.

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Profughi

L’altro giorno chiacchieravo con una mia vicina di casa che chiamerò Maria. Dopo un po’ mi racconta che era giunta in Italia dalla Libia col barcone dopo varie peripezie. Mi ha raccontato della povertà della sua famiglia, della sua sorellina che piangeva disperata quando è partita e non ha mangiato più per la tristezza. Fa le pulizie a chiamata e manda i soldi alla famiglia. “Sono l’unica fonte di reddito per tutti”, mi ha detto.
Le ho domandato:”Hai avuto paura sul barcone?”.
Lei: Sai, quando sei povero chiudi gli occhi e fai di tutto”.
Mi sentivo in imbarazzo e dispiaciuta.

Mi sono ricordata quando da piccola si parlava dei poveri come di una comunità a parte, isolata chissà in quale lembo di costa del mio paese. I poveri e tutti i sensi di colpa che avrei dovuto provare da brava cristiana nei loro confronti, colpe fin dalla nascita. “Finisci la pasta. Lo sai che ci sono bambini che non hanno niente da mangiare?”. Penso che la strumentalizzazione di questa larga categoria la subii da piccola fino all’età adulta, mai come adesso che c’è la crisi e che siamo tutti un poco più poveri e che questa parola viene utilizzata dai politici per far impennare il consenso insieme a ‘profughi’, ‘rifugiati’, ‘immigrati’, ‘clandestini’. Quante parole e quanta confusione, insieme a ‘papa comunista’, ma perché il papa dovrebbe essere fascista casomai? La divisione dei pesci che risulta una divisione quasi fantomatica e impossibile, alla fine riesce,pure il pane si moltiplica. Tutti riescono mangiare nonostante la sfiducia e l’incredulità degli apostoli presenti al miracolo. Gesù comunista! Il cattolicesimo parla chiaro, non lascia molto spazio a fraintendimenti e per chi avesse una coscienza basta un piccolo senso dell’umanità a farci riflettere.

In questi giorni in cui si fa tanto casino per i profughi e quant’altro mi viene in mente la mia nonna pugliese, una cattolica a tutti gli effetti. Chi andava a trovarla sa! Di nascosto a mio padre che protestava inutilmente mia nonna faceva entrare a casa persone povere e zingari. Mi capitava di scendere al piano di sotto, guardare nel suo appartamento e trovare donne che davano da mangiare ai bambini, mia nonna che riscaldava il latte, dava pane. Ecco, mia nonna, so per certo che avesse una piccola pensione e non comprava niente per sé. Quando le dicevo: “Nonna andiamo a comprare qualcosa da mettere?”, mi rispondeva:” Perché dare dei soldi ai negozi?”. Ecco, pensandola, a tutti i problemi che ci facciamo ad accogliere qualche centinaio di persone in tutta Europa, penso alla cucina piena di zingare e bambini di mia nonna, i pentolini di latte sulla piccola cucina a gas, le proteste di mio padre, (mai ascoltate). La risposta incazzata di mia nonna:” Siamo cristiani!”. Penso che se fosse stato per lei il capitalismo sarebbe scomparso in meno di mezza giornata e che almeno un centinaio di profughi avrebbemigranti-ventimiglia-confine-francia-sgombero-615-body-image-1434545161 potuto trovare un posto sicuro nella sua cucina.

Guardo il quartiere in cui abito, palazzine con centinaia di famiglie. Un quartiere popolare come tanti. Tante persone diverse che s’incrociano ogni giorno senza guardarsi in faccia. Tante famiglie musulmane, italiane, di tutte le nazionalità, tante storie. Penso a Maria nella sua casa e ai suoi ricordi, alla sua vita attuale, alle sue pulizie nelle case di questa città, alla sua solitudine che mi ha raccontato:” Sai, anche noi musulmani una volta venuti qui non siamo più una comunità. Diciamo a parole di aiutarci, ma quando abbiamo davvero bisogno siamo soli”.

Sono questi i valori occidentali? Non costituire una comunità? Non aiutarsi? Chiudere porte, portoni, case, frontiere? Ci lamentiamo della solitudine. Le persone anziane morte in casa nelle grandi città vengono ritrovate dopo mesi. Cosa dobbiamo difendere? Cosa c’entra la nostra povertà con l’aiutare qualcun altro? Se le nostre leggi sono ingiuste per noi stessi, se l’economia non va perché le banche hanno gestito ogni cosa, perché il capitalismo ha distrutto il pianeta, cosa c’entrano i profughi? Il conducente del pullman milanese si è lamentato della puzza dei profughi. Perché non protestiamo anche per la puzza delle città? Per l’inquinamento che ci ammazza, per le polveri sottili, per il cibo spazzatura? Perché non pensiamo come priorità le lamentele per il lavoro che non c’è, per l’istruzione che non è gratuita, per la sanità che non funziona più? Cosa c’entrano i profughi?

Siamo cresciuti pensando che quello che abbiamo ci sia dovuto, perché siamo bianchi, occidentali, siamo i padroni. Andiamo negli altri paesi a prendere materie prime, scatenare guerre; inquiniamo il pianeta, diventiamo ecologisti e vegetariani e combattiamo contro le uccisioni delle foche tra popolazioni che sopravvivono solo grazie a quello, ma continuiamo a mangiare maiali nel nostro paese perché la nostra cultura è sopra le altre. Continuiamo a utilizzare le automobili anche per fare una passeggiata e ad usare tutto quello che c’è di utilizzabile. Vegani con fuoristrada e case grandissime, supermercati con le stesse marche da anni, le solite trasmissioni in tv, università sempre più inaccessibili, visite mediche indispensabili ormai a pagamento e mi domando cosa cavolo c’entrino i profughi.

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Hai studiato a Bologna se…

giardini Su Facebook c’è una pagina che si chiama: Hai studiato a Bologna se… Una pagina riuscitissima,  un gruppo aperto strapieno di like (più di 22.800) dove è impossibile non leggere un qualsiasi post e non farsi venire una lacrima, un impeto di sana nostalgia, un ricordo che ti riempie l’anima, perché chi ha studiato a Bologna “sa”, sa bene quello che significa averci studiato. E’ difficile da spiegare agli altri, a quelli che “non sanno”. Quando si chiede a qualcuno se abbia studiato a Bologna e questo annuisce, lo fa con un sorriso malinconico e sornione di chi la sa lunga. Un sorriso di chi ha dentro ricordi irripetibili. E si pronuncia ‘Bologna’ migliaia di volte, ‘Bologna’ è speciale, ‘Bologna’ è la città più divertente. Ma perché proprio e solo Bologna? La pagina ha migliaia di post che procurano il senso della condivisione, della compartecipazione. Un post dice: “Bologna mi ha regalato Amsterdam”. Cosa c’entra adesso Amsterdam? C’entra perché per chi è venuto da lontano a studiare, questa città è solo un punto di partenza per altre mete. E allora da Bologna si prende lo zaino e si va a Barcellona, a Madrid, a Berlino, ad Amsterdam appunto. Si fa l’Erasmus e si va a trovare i propri amici sparsi per l’Europa. Chi è stato a Bologna per tanti anni non è stato mai solo. Non è rimasto mai a casa ad annoiarsi davanti la tv. Via Zamboni, I giardini del Guasto, Strada Maggiore, Piazza Santo Stefano, Piazza San Domenico, il Pratello, I Giardini Margherita e i vari locali, sono le vere case degli studenti. Si è in compagnia in casa dove trovare un attimo di solitudine è un dono e si sta in compagnia fuori dove si trova sempre qualche faccia conosciuta. Amicizie importanti e amicizie che si ridurranno a bere una birra insieme tutte le sere senza conoscersi mai profondamente. Bologna è un porto, un crocevia, un ritrovo. Bologna è la ReUnion che si svolgerà a breve e che riunirà persone da tutto il mondo che hanno abitato insieme per anni e che magari hanno perso i contatti ma che quando si ritrovano si abbracciano stretti. Bologna è appartamenti condivisi da persone di diverse regioni e di diverse lingue e nazioni che hanno solo voglia di conoscersi e non hanno paura degli altri come la politica di oggi ci insegna. Bologna è uno schiaffo in faccia al razzismo, alle regole che sottomettono l’uomo, alla paura del diverso, a tutti i tipi d’intolleranza, alla tristezza. Ma sto parlando di una Bologna che studia, una Bologna che si mette in gioco, sto parlando non di Bologna e non dei Bolognesi ma del multiculturalismo che la contraddistingue. La ‘magia’ di Bologna è fatta dalla diversità che la forma, gente di passaggio. Non è Bologna in sé che causa questa vivacità, ma l’apporto di studenti che vengono dal sud e da tutto il mondo. Se non ci fosse questa diversità sarebbe una città come tante. Per gli studenti ‘bolognesi’ i personaggi famosi non sono quelli che si vedono sui media, ma quelli che ti hanno accompagnato tutti i giorni per via Zamboni fino al giorno della tua discussione di laurea. Ricordo ancora l’ironia e l’intelligenza del cosiddetto ‘Parapara’, soprannominato così perché recitava questo scioglilìngua. Ritanson Osas Igbinigie, il 45enne nigeriano, faceva il venditore ambulante qui in Italia; elencava con estrema precisione le formazioni delle più svariate squadre di calcio d’Italia e d’Europa. Si era laureato in Mass Comunication, a Lagos, ha fatto il giornalista sportivo per la Tv nigeriana. Era consapevole della sua competenza e perciò sapeva benissimo che il lavoro che faceva non fosse un vero lavoro; vendere calzini, roba scadente per strada. Gli serviva per vivere ed era quello che un immigrato può fare in Italia mettendo da parte competenze e attitudini. Era impossibile non accorgersi del suo sarcasmo, della sua ironia quando prendeva in giro gli studenti agitati alle discussioni di laurea. Concludo con il ricordo di questo ‘personaggio famoso’ perché lo penso come un simbolo per una città che accoglie una delle università più importanti del mondo, diversa perché accoglie gente diversa e perché la cultura è l’unico mezzo e luogo dove resistere al razzismo, all’intolleranza, al cinismo, alla disumanità e e alla stupidità in cui siamo immersi di questi tempi, (anche fuori e soprattutto dalle aule universitarie di questa città).

p.s. troverete altri gruppi omonimi, quello vero è quello aperto! Diffidate dalle imitazioni!

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Vulni-cura.

Vulni-cura.

Di Emanuela De Siati

Per ascoltare Bjork bisogna lasciare da parte logica e ragione e affidarsi ad antiche lotte ancestrali ingestibili tra l’uomo e la materia, abbandonare le proprie orme sul pianeta Islanda, trasformare la durezza dei pensieri ghiacciati e tramutarli in acqua e fluidi strani che assomigliano di più alle emozioni primordiali. Tra rocce e distese non violentate dalla civiltà ritroviamo la sincerità del nostro io, finalmente libero, feroce, tenero, umano, vegetale, minerale, drammaticamente vivo.

Durante una conferenza stampa del 2005 Bjork dichiara di essere quasi ossessionata dalle emozioni e anche quest’ultimo album è infatti un lavoro e una ricerca ossessiva delle emozioni, guardate al microscopio, analizzate, focalizzate, inquadrate in una cornice di materia terrestre. Nessun giudizio, nessun complesso di colpa, nessuna negazione e nessun superamento, solo la costante messa in onda dei suoi stati d’animo nel più profondo degli strati di un cuore che batte ed è ben visibile nel suo petto che fa trasparire viscere, fluidi, circolazione sanguigna, materia organica alle prese con il dolore. L’emozione non è più astratta di un cuore che batte e il dolore non più di un torace aperto.

Alcune informazioni sull’album: la scelta del titolo è dovuta alla fine della relazione col marito Matthew Barney; unisce due parole: ferita e cura, e ci racconta cosa succede all’essere umano dopo la fine di un amore. L’argormento sembra banale, ma i contenuti e l’aspetto artistico più che quello musicale, sono estremamente innovativi. L’album esce dopo più di tre anni da Biophilia, (11 ottobre 2011) anticipandone i tempi che prevedevano l’uscita in contemporanea del libro e una celebrazione alla carriera presso il MoMA di New York. Nel museo infatti è possibile assistere ad una vera e propria celebrazione della carriera dell’artista con una serie di installazioni, video, immagini, oggetti, costumi, strumenti, una retrospettiva di video musicali, un’esperienza interattiva di un intero album, una narrazione autobiografica e poetica con l’ausilio dello scrittore islandese Sjòn; perla della mostra: il famoso robot progettato da Chris Cunningham per “All is Full of Love”.

Durante la conferenza dal titolo “Björk: Human Behavior” si discuteranno le idee dell’artista sulla natura in generale e quella umana.

Bjork in questi anni ha usato la musica accostandola ad altre forme d’arte. L’eccezionalità sta nel fatto di aver saputo mescolare sapientemente ognuna di queste sottoforma di oggetto di grandissimo valore comunicativo ed estetico. Una vera e propria esperienza sinestetica dove artificialità e natura estrema si avvolgono concludendosi nell’umana natura.

Potrete trovare i brani e i corrispettivi video ormai sul web. Dal 17 Marzo esce l’album in formato Audio Cd, dal 24 Marzo il vinile doppio. Di seguito la tracklist:

Tracklist Vulnicura – Bjork

  1. Stonemilker– 6:49 (Björk)
  2. Lionsong– 6:08 (Björk)
  3. History of Touches – 3:00 (Björk)
  4. Black Lake – 10:04 (Björk)
  5. Family – 8:02 (Björk, Arca)
  6. Notget – 6:26 (Björk, Arca)
  7. Atom Dance (featuring Antony Hegarty) – 8:09 (Björk)
  8. Mouth Mantra – 6:09 (Björk, Oddný Eir Ævarsdóttir)
  9. Björk_-_Vulnicura_(Official_Album_Cover)Quicksand – 3:45 (Björk, John Flynn)
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#acheservestudiare

Et nos peregrini regnavimus;qui sis, non unde natus sis reputa”.
“Anche noi, benché stranieri, regnammo; considera chi sei, non da chi sei nato”.
Tanaquilla. Roma. 600 a.C.
“Dovete andarvene dal nostro paese perché i musulmani portano il terrorismo. Va bene gli intellettuali ma io penso ai poveri pensionati italiani.
Daniela Santanchè.
Roma 2015

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